Davanti ad un piatto di mensi poljev u lepini, che ho scelto solo perché il nome mi suonava interessante, Zijo Ribic, rom musulmano, inizia a raccontarmi la sua storia. L’avrà fatto chissà quante volte, senza mai stancarsi nel diffondere il suo messaggio di pace e perdono. “Io non odio, non voglio odiare – afferma -. E se sono vivo è perché Dio lo ha voluto, proprio per permettermi di portare la mia testimonianza. Ho parlato anche davanti Papa Francesco a Roma”.
Per arrivare al ristorante abbiamo attraversato il centro di Tuzla, terza città più grande della Bosnia Erzegovina, e da perfetto conoscitore del posto mi ha fatto da guida ai tanti monumenti: la Lacrima, installata nel punto in cui c’era la stazione ferroviaria e dove ebrei e rom venivano radunati e poi spediti nei campi di concentramento dai tedeschi; la Turbe vicino una moschea, dove abbiamo lasciato una moneta ed espresso un desiderio; il memoriale piazza Kapija in ricordo delle vittime uccise dalla granata il 25 maggio 1995; le statue di bronzo raffiguranti Meša Selimović e Ismet Mujezinović, scrittore il primo pittore il secondo. Solo l’aria pesante proveniente dalla centrale termoelettrica a carbone rovina la nostra piacevole passeggiata. Tuzla è una città ricca di storia e di storie e quella di Zijo Ribic è una di quelle che gela il sangue. Solo una volta seduti inizia a raccontare.
“Da giorni si parlava di quello che stava succedendo nella zona e per questo molti musulmani avevano deciso di partire, lasciare il paese – spiega -. Mio padre non voleva andare via, pensava che non sarebbe successo niente, noi rom non facciamo guerra a nessuno, non avremmo dovuto preoccuparci. Eppure una sera anche nel mio paese, a Skočić, sono arrivati i camion con i paramilitari serbi”. Era la notte tra l’11 e il 12 luglio 1992, e i serbi avevano iniziato le loro azioni di conquista dei territori che prevedevano anche lo sterminio delle minoranze. Attività che avrebbero poi raggiunto il culmine con Srebrenica nel ’95, uno dei casi più noti.
“Per sentirci sicuri, tra parenti e amici, ci eravamo radunati in una casa. I militari hanno fatto irruzione e da subito ci hanno minacciato con le armi – racconta Zijo, che all’epoca aveva poco più di sette anni e viveva con i genitori, con la madre incinta al nono mese, sei sorelle e un fratello -. Ci hanno fatti uscire nel cortile e lì hanno violentato davanti a noi una mia sorella e altre due ragazze. Subito dopo ci hanno divisi e fatti salire sui camion, uomini da una parte e donne e bambini dall’altra”. Tutti sono stati trasportati poco lontano, vicino al villaggio di Malešići.
“Piangevo, volevo stare con mia madre. Qualcuno, cercando di farmi stare zitto, mi ha detto che mi avrebbe portato da lei, poi però mi ha lasciato davanti al camion e mi ha detto stai fermo – ricorda -. E subito dopo sono stato raggiunto da un colpo di fucile, che mi ha preso alla spalla. Vedendo che ero ancora vivo con un coltello mi hanno tagliato il collo. Sono caduto a terra come se fossi morto e mi hanno preso per braccia e per gambe e mi hanno buttato nella fossa, dove c’erano i cadaveri degli altri”. In quella notte non si è salvato nessuno, tranne Zijo.
“Molti mi chiedono come sia possibile che sia rimasto vivo – è la domanda della sua vita -. Anche per me è difficile capire quello che è successo, non ricordo molto. Credo che Dio abbia voluto farmi vivere. Sono stato fermo lì non so per quanti minuti. Sentivo che stavano uccidendo gli altri, sentivo i lamenti e i pianti di tutti, poi sono riuscito ad alzarmi e a risalire dalla fossa. Nessuno mi ha visto allontanarmi, era notte ed erano impegnati. Mi sono nascosto nella prima casa che ho trovato”. Il giorno dopo Zijo è uscito e si è ritrovato solo e pieno di sangue. “Fuori non c’era nessun rumore, neanche gli uccelli cantavano – racconta – ho visto del fumo e sono andato da quella parte, avvicinandomi ad una casa ho incontrato due donne che nel vedermi si sono spaventate e sono rientrate subito. Poi sono usciti due uomini con la pistola e l’uniforme dell’ex Jugoslavia”. Nonostante la paura Zijo si è fidato e ha raccontato cosa fosse successo. È stato accolto in casa, dove ha ricevuto cure e cibo. I due uomini lo hanno portato nell’ambulatorio di Kozluk, dove Zijo ha ritrovato i suoi carnefici che lo chiedevano in custodia. I due soldati non hanno ceduto e lo hanno affidato ai caschi blu, nell’ospedale di Zvornik. Lì è rimasto fino al novembre ’94, poi passato in un centro riabilitativo in Montenegro, infine tornato nel 2001 in Bosnia Erzegovina, a Tuzla, dove dopo i 18 ha vissuto nella Casa Pappagallo, per ragazzi che non hanno famiglia e un posto dove andare.
“Ho continuato a studiare per diventare cuoco e nel 2006 circa sono andato in Italia, per continuare a formarmi come cuoco – spiega – ho lavorato per 4 stagioni consecutive, tra Rimini, Riccione e Cattolica”.
Una volta ritornato in Bosnia Erzegovina ha incontrato la sociologa Natasha Kandic, già direttrice dello Human Law Center di Belgrado, e membro del consiglio d’amministrazione del Fondo volontario delle Nazioni Unite per le vittime della tortura, e grazie al suo supporto decide di raccontare la sua storia e di denunciare i crimini subiti. Zijo Ribic è il primo rom a testimoniare contro i crimini di guerra serbi.
“Durante il processo ho voluto guardare negli occhi chi ha ucciso la mia famiglia, pensavo di provare odio, ma subito ho detto no, non voglio pensare all’odio, perché altrimenti non finisco più provarlo. Non voglio pensare che un’altra generazione possa crescere con l’odio per il passato – è fermo in quello che dice -. Siamo tutti uguali, tutti figli di un unico Dio, anche se lo chiamiamo con nomi diversi. Non è possibile che ancora oggi ci siano politici che parlano di odio”.
Ha perdonato, cercava giustizia. “Durante il processo, ad una pausa, gli imputati e il loro avvocato erano al bar e volevano offrirmi un caffè – ricorda – mi sono avvicinato senza problemi, a me interessava solo chiedere perché. Perché uccidere donne incinte, bambini. Perché? Sono rimasti in silenzio. Io ho perdonato, ci sarà chi farà giustizia per tutti, a quella terrena non credo”. Alla fine gli imputati ne sono usciti puliti, per impossibilità di attribuire colpe precise.
La sua storia è già contenuta in un libro “Io non odio/Ja ne mrzim – La storia di Zijo”, a cura di Andrea Rizza Goldstein della Fondazione Alexander Langer Stiftung, ed è stato realizzato anche un dvd. Grazie anche all’impegno della Fondazione Benetton è riuscito a portare la sua testimonianza in molte città italiane del nord.
Per smaltire, soprattutto il carico emotivo, abbiamo continuato a camminare attraversando la bellissima piazza Della Libertà, dove è presente una stele dedicata al politico italiano Alexander Langer, molto conosciuto e stimato, per poi passare dal parco acquatico fino alla collina dove tra altri memoriali ai caduti, si trova anche la statua del comandante Tito, circondata dai busti dei suoi generali.
Qui ci sono ancora tanti suoi nostalgici, e ancora si festeggia il suo compleanno.
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