Arrivata la sera tardi, dopo circa sei ore di viaggio in pullman, vengo accolta da un freddo pungente, le bandiere serbe e le scritte in cirillico ovunque. Sono ancora in Bosnia Erzegovina ma a Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska, una delle entità che compone la BiH, sembra di essere in un altro Paese. Dagli accordi di Dayton è obbligatorio usare gli alfabeti latino e cirillico, ma in Federazione si usa il primo e nella Repubblica rigorosamente il secondo. Le differenze sono rimarcate: qui anche i cevapi, piatto tipico di tutto il Paese, sono diversi. E non riconoscono la festa dell’Indipendenza, il 1° marzo, dal referendum del 1992 che segnò il distacco dalla ex Jugoslavia, mai riconosciuta dai serbi che invece festeggiano il 9 gennaio, data controversa che richiama altre ricorrenze etniche.
Ho appuntamento con Dajana la mattina seguente “in un posto che più si assomiglia ai bar italiani, dove si può fare colazione” mi scrive carinamente nel messaggio, ma non mi aspettavo di trovarmi accanto a ragazzi che iniziano la giornata con un trancio di pizza condito da abbondante ketchup, (abitudine che accomuna tutto il Paese). Lungo la strada mi accorgo delle lunghissime file davanti alle banche russe, primi effetti della guerra scoppiata in Ucraina.
“Immagino lo sconforto degli ucraini costretti a lasciare casa, è successo anche noi, mia madre mi ha raccontato come sia difficile scegliere in pochi minuti cosa scegliere di portare via, lei ha dovuto lasciare i suoi amati libri – davanti ad un espresso inizia così il suo racconto Dajana Umićević, educatrice in Youth for Peace e impiegata nella Caritas diocesana di Banja Luka -. Io ero piccola, avevo due anni e non ricordo nulla, quando nel ’94 sono arrivate le truppe a Bihac e per non morire siamo scappati. Mia madre voleva andare a Belgrado da parenti. Mio padre non era convinto, non voleva che si pensasse che fosse scappato, mentre tutti intorno erano pronti ad arruolarsi, per difendere le donne, il territorio”.
I ricordi della guerra sono ancora molto forti e Dajana preferisce non affrontare il discorso con la madre, per non riaprire ferite profonde. “Per me è diverso, ero cosciente di ciò che stava succedendo, non ricordo neanche il volto di mio padre, l’ho conosciuto solo in foto – continua -. Lei mi dice che c’era qualcosa nell’aria, una chiamata alle armi generale e indispensabile, mio padre non sentiva questo richiamo, eppure ha scelto di andare. E non è più tornato. Altri hanno preferito scappare, non li giudico, anche se un po’ di rabbia mi sale: avrei potuto avere mio padre qui, chi se ne frega di quello che avrebbe potuto dire la gente”. È vero anche, aggiunge, che molti combattenti non si sono ripresi dal trauma della trincea, alcuni bevono, altri sembrano smarriti, fuori dal tempo.
“Mio marito ha perso il padre allo stesso modo, lui tra l’altro è figlio unico – dice Dajana, in un perfetto italiano, imparato negli anni in cui è stata in Sicilia, ospite di una famiglia affidataria -. La guerra ha portato solo dolore e sofferenze e intanto ci solo alcuni politici che si aspettano che i giovani prendano le armi e mi preoccupa il fatto che ci siano persone pronte a farlo, anche se quello che è successo è lontano nel tempo, come se fossero ancora negli anni ‘90. Specialmente nei paesini dove non ci sono minoranze etniche. È vero che fortunatamente sono pochi ma fanno rumore: per la festa del 9 gennaio, vanno a mettere la bandiera serba nei paesi dove ci sono anche altre etnie. E i media della Federazione danno troppo risalto a queste notizie”.
Nelle persone più grandi, il dolore delle perdite subite in guerra ha lasciato spesso rancore e diffidenza, ognuno racconta la storia dal proprio punto di vista, ognuno si sente vittima. Lei stessa confessa che anche con i suoi nonni non può affrontare certi argomenti. in lei però non c’è risentimento, ha perdonato ed è stata capace di partire da qui per sviluppare assieme ad altri amici, Nedjeljko, croato e Adil, musulmano, anche loro orfani di padre, e con Emina, un progetto per il dialogo interreligioso e interculturale.
La Youth for Peace, la “Scuola della pace” ogni anno, almeno prima della pandemia, ha accolto tantissimi giovani anche dall’estero. “Abbiamo la stessa storia, tre diverse realtà ma il dolore è unico. Ci dobbiamo unire, non dividere, c’è gente che ancora non lo capisce. Nel 2014 abbiamo fondato l’associazione con l’idea di eliminare i discorsi d’odio – continua Dajana –, siamo partiti dai discorsi che facevamo tra noi per cercare i mezzi adatti per aiutare i ragazzi a parlare della storia e del futuro comune. Per trovare punti in comune, e per non disprezzare le differenze, che arricchiscono”. Lavorano su due fronti, con i ragazzi a rischio devianza, cercando di fare da guida e poi con giovani fino a 25 anni circa con i seminari sul dialogo interreligioso e sulla costruzione della pace. “Abbiamo fatto anche diverse attività con gli adulti – e spiega –: adesso stiamo vivendo una “pace fredda”, quella che c’è adesso non è vera pace, ma costruita forzatamente da Dayton. Non basta fermare la guerra per avere la pace, questo è solo il primo passo di tanti altri da fare. Vanno cambiati anche i sentimenti, le parole, i progetti che puntano al dialogo”.
Di certo non ha aiutato il progetto avviato a fine guerra “Due scuole sotto un tetto”, finanziato dalla comunità internazionale e che prevedeva di dividere le entrate degli edifici scolastici e di far entrare i bambini delle diverse religioni a orari differenti, per evitare che si incontrassero e si evitassero conflitti. Abituandoli di fatto alle divisioni. Fortunatamente ce ne sono sempre meno nel Paese.
“Tramite la nostra associazione abbiamo incontrato tantissimi giovani di tutta la Bosnia Erzegovina; chi viene dall’estero spesso ci chiede perché “siamo così complicati” – ride – oppure se ho degli amici di altre religioni. È difficile da spiegare, cerchiamo di capire anche noi perché siamo visti così. Anche qui, però, c’è chi fa fatica a comprendere quello che facciamo e le nostre ragioni: si stupiscono quando andiamo a Sarajevo, sembra quasi un sacrilegio”.
Affrontare il tema della pace con ragazzi che non l’hanno mai fatto e che vengono da esperienze di vita diverse. Non è semplice.
“In un seminario a Sarajevo era presente un ragazzo musulmano. Dopo alcuni giorni di attività e ci ha detto: “se mio nonno sapesse che io sono seduto accanto ad un serbo mi ammazzerebbe” – racconta Dajana -. Eravamo agli inizi della nostra attività e quella confessione ci ha raggelati. Magari per lui saranno stati i giorni più belli, in compagnia e poi sarebbe tornato a casa e avrebbe dovuto affrontare la famiglia. E anche una mia amica, mi ha riferito una volta che per l’attività che svolge nell’associazione è considerata la vergogna della famiglia. Sono cose che ti feriscono profondamente. Ma possono i familiari condizionare il futuro di pace e convivenza in questo modo? Per fortuna possiamo anche raccontare di amori sbocciati durante i corsi”.
Alla fine degli incontri i tre soci si ritirano per parlare delle attività, fanno valutazioni su come è andata e per smaltire le emozioni.
“Anche intorno a me ci sono persone che non capiscono il mio lavoro, il piccolo contributo che voglio dare alla società e alle future generazioni – confida – per evitare che si possa cadere nella rete della propaganda. Non abbiamo le foto dei compleanni, non abbiamo fatto gite o altre cose insieme ai genitori. Per molti la vita si è fermata al periodo della guerra, hanno soppresso le emozioni, non ricordano più nulla della loro infanzia o non vogliono ricordare. Hanno accumulato solo emozioni negative e stress. E se penso che c’è qualcuno pronto a fare di nuovo la guerra mi vengono i brividi. Abbiamo un passato pesante, smettiamola di pensare che uno sia più importante dell’altro. Qui i libri di storia finiscono all’inizio della guerra, non si va avanti per evitare di affrontare l’argomento e questo mi fa tanta rabbia. Bisogna parlarne. E far capire che le vendette non servono. Abbiamo bisogno di pace”.
Sono rimasta a Banja Luka due giorni, per conoscere un po’ questa città ferita nel suo aspetto non dalla guerra ma da un terremoto, nel 1969, e poi dall’alluvione del 2014 che ha messo in ginocchio la popolazione. Nel freddo e nel grigio della città, la carica vitale di Dajana mi ha scaldato il cuore e dato speranza.
Per informazioni sul progetto ecco il link del sito e qui la pagina Facebook
Lascia una risposta